“Questo è
il mio corpo, che è per voi. Fate questo in memoria di me” (1 Cor
11,24)
Roma, 7 giugno 2007
Solennità del Corpo e del Sangue del Signore
Carissimi
confratelli,
vi saluto con grande affetto,
al mio rientro da Aparecida, Brasile, sede della Vª Conferenza dell’Episcopato
Latinoamericano e del Caribe, che ha visto la partecipazione di 13 Vescovi
Salesiani e due FMA, oltre a quella del Rettore Maggiore. È stata un’esperienza
ecclesiale straordinaria, di cui parlerò in altro momento. Per ora mi basta
esprimere l’auspicio che questa grande assemblea possa dare speranza e vita ai
popoli di quel continente, attraverso una Chiesa – e noi SDB in essa – che
diventa discepola innamorata e fedele del Cristo e missionaria convinta e
coraggiosa. Oggi preferisco parlarvi di un tema che mi sta molto a cuore e sul
quale vengo riflettendo dall’anno scorso, l’Eucaristia.
Sono pienamente cosciente che
qualcuno di voi potrebbe pensare ridondante, se non superflua, una nuova lettera
sull’Eucaristia. Non avete dimenticato, di sicuro, quella che Don Vecchi
scrisse sul tema nell’Anno Giubilare del 2000 “per riscoprire il mistero
eucaristico e il suo significato nella nostra vita e nella nostra
pastorale”. [1]
Vi confido però che, già da qualche
tempo sentivo urgenza di riprendere l’argomento e farvi presente le mie
preoccupazioni. I motivi
sono davvero pressanti.
1.
‘FARE L’EUCARISTIA’
OGGI
Impegnati come siamo nel
“ritorno a Don Bosco”, nel recupero creativo delle sue geniali opzioni
carismatiche, delle sue indovinate intuizioni pedagogiche, quanto vorrei che in
Congregazione si vivesse – sempre meglio, sempre di più – dell’Eucaristia,
celebrata con regolarità e riconoscenza, contemplata nell’adorazione personale e
comunitaria! Come annunziare meglio la morte del Signore finché Egli venga, se
non mangiando di questo pane e bevendo a questo calice, e diventando noi stessi
“pane spezzato” per i confratelli e i giovani e “libagione”, perché essi abbiano
vita in abbondanza? (cf. 1 Cor 11,26). Come portare con più efficacia i
nostri giovani a conoscere il Dio che ci ha amati per primo (cf. 1 Gv
4,8-9.19) e senza limiti (cf. Gv 13,1)?
1.1 L’Eucaristia
nel cammino recente della Chiesa
Fonte e culmine della
vita e della missione della Chiesa, [2]
il dono dell’Eucaristia, “sempre
religiosamente custodito come preziosissimo tesoro”, [3]
ha accompagnato e stimolato il cammino
di rinnovamento che la Chiesa ha percorso dal Vaticano II fino ai nostri giorni.
Difficilmente avrebbe potuto essere diversamente: “la celebrazione eucaristica è
al centro del processo di crescita della Chiesa”; [4]
“la Chiesa”, infatti, “vive
dell’Eucaristia. Questa verità non esprime soltanto un'esperienza quotidiana di
fede, ma racchiude in sintesi il nucleo del mistero della
Chiesa”. [5]
Non era ancora concluso
il Concilio e già Paolo VI aveva pubblicato la lettera enciclica Mysterium
Fidei (3 settembre 1965) sulla dottrina e il culto della Santissima
Eucaristia: “i Padri del Concilio” – scriveva il Papa – “niente hanno avuto più
a cuore che esortare i fedeli affinché con integra fede e somma pietà
partecipino attivamente alla celebrazione di questo Sacrosanto
Mistero”. [6]
Ma è stato nel lungo
magistero di Giovanni Paolo II dove si è registrata “una straordinaria
concentrazione sul sacramento dell’Eucaristia”. [7]
Nei primi anni del suo magistero scrisse
la Lettera apostolica Dominicae Cenae (24 febbraio 1980), dove metteva in
risalto “alcuni aspetti del mistero eucaristico e della sua incidenza nella vita
di chi ne è il ministro”. [8]
Più tardi, “per sottolinearne la
presenza viva e salvifica nella Chiesa e nel mondo” Giovanni Paolo II volle che,
in occasione del grande Giubileo, si tenesse a Roma un Congresso eucaristico
internazionale: “il Duemila – si riprometteva – sarà un anno intensamente
eucaristico” [9]
. Tre anni dopo, nel 2003, nella sua
Enciclica Ecclesia de Eucharistia (17 aprile 2003) ci tenne a ricordare
che “lo sguardo della Chiesa è continuamente rivolto al suo Signore, presente
nel Sacramento dell’Altare, nel quale essa scopre la piena manifestazione del
suo immenso amore”. [10]
L’anno seguente, con la Lettera
apostolica Mane nobiscum Domine (7 ottobre 2004), Giovanni Paolo II
indisse un intero anno in cui volle la Chiesa “particolarmente impegnata a
vivere il mistero della Santa Eucaristia… sulla strada dei nostri interrogativi
e delle nostre inquietudini, talvolta delle nostre cocenti
delusioni”. [11]
Il Congresso Eucaristico Internazionale,
realizzatosi dal 10 al 17 ottobre 2004 a Guadalajara (Messico); l’Assemblea
Ordinaria del Sinodo dei Vescovi sul tema: «L’Eucaristia fonte e culmine della
vita e della missione della Chiesa», tenutasi in Vaticano dal 2 al 23 ottobre
2005; e la Giornata Mondiale della Gioventù, celebrata a Colonia, Germania, dal
16 al 21 agosto 2005, per fare dell’Eucaristia “il centro vitale” intorno a cui
i giovani dovevano raccogliersi “per alimentare la loro fede ed il loro
entusiasmo” [12]
sono stati gli eventi che segnarono
questo Anno dell’Eucaristia, con cui culminava un preciso percorso “nel solco
del Concilio e del Giubileo”. [13]
Due di queste iniziative,
“naturale sviluppo dell’indirizzo pastorale” che Giovanni Paolo II intese
imprimere alla Chiesa all’inizio del Terzo Millennio [14]
, sono state assunte di buon grado e
portate a termine da Benedetto XVI.
Nella spianata di
Marienfeld, durante la veglia del 20 agosto 2005, il Papa richiamava i giovani
all’adorazione del mistero, prima di invitarli nella celebrazione eucaristica
del giorno seguente a partecipare al mistero ed immedesimarsi in Cristo: “pane e
vino – disse il Papa – diventano il suo Corpo e Sangue. A questo punto però la
trasformazione non deve fermarsi, anzi è qui che deve cominciare appieno. Il
Corpo e il Sangue di Cristo sono dati a noi affinché noi stessi veniamo
trasformati a nostra volta. Noi stessi dobbiamo diventare Corpo di Cristo,
consanguinei di Lui… L’adorazione […] diventa unione.
Dio non è più
soltanto di fronte a noi, come il Totalmente Altro. È dentro di noi, e noi siamo in Lui”. [15]
Benedetto XVI, che aveva
presieduto di persona i momenti salienti dell’Assemblea sinodale, ha poi
pubblicato l’Esortazione apostolica postsinodale Sacramentum caritatis
(22 febbraio 2007), per “riprendere la multiforme ricchezza di riflessioni e
proposte emerse […] nell’intento di esplicitare alcune fondamentali linee di
impegno, volte a destare nella Chiesa nuovo impulso e fervore
eucaristico”. [16]
Oltre ad accettare e citare
espressamente tanti pregiati interventi dei Padri sinodali, il Papa ha voluto
“porre la presente Esortazione in relazione con la sua [mia] prima Lettera
enciclica Deus caritas est nella quale ha [ho] parlato più volte del
sacramento dell’Eucaristia, per sottolineare il suo rapporto con l’amore
cristiano, sia in riferimento a Dio che al prossimo: «Il Dio incarnato ci attrae
tutti a sé. Da ciò si comprende come agape sia ora diventata anche un
nome dell’Eucaristia: in essa l’agape di Dio viene a noi corporalmente
per continuare il suo operare in noi e attraverso di noi» ”. [17]
Il cammino della Chiesa,
in questi ultimi anni, in particolare a partire dell’anno Giubilare, “è stato
indubbiamente caratterizzato in senso fortemente eucaristico” [18]
Non avrebbe potuto essere altrimenti:
“l’Eucaristia è Cristo che si dona a noi, edificandoci continuamente come suo
corpo… L’Eucaristia, dunque, è costitutiva dell’essere e dell’agire della
Chiesa”; [19]
se è vero che “la Chiesa vive del
Cristo eucaristico, da Lui è nutrita, da Lui è illuminata”, [20]
è vero altrettanto che “grazie
all’Eucaristia la Chiesa rinasce sempre di nuovo!” [21]
La Chiesa non può rimanere fedele alle
sue origini, né può crescere senza la celebrazione dell’Eucaristia: “quanto più
viva è la fede eucaristica nel Popolo di Dio, tanto più profonda è la sua
partecipazione alla vita ecclesiale”. In più, “ogni grande riforma è legata, in
qualche modo, alla riscoperta della fede nella presenza eucaristica del Signore
in mezzo al suo popolo”. [22]
1.2 L’Eucaristia
nell’attuale cammino della Congregazione
“Anche per noi”, ci
scriveva Don Vecchi anni fa, “il rinnovamento personale e comunitario,
spirituale ed apostolico […] comprende la riscoperta convinta e gioiosa delle
ricchezze che l’Eucaristia ci offre e delle responsabilità a cui ci
chiama”. [23]
Faccio proprie le sue parole e ve le
ripropongo come compito inderogabile per assumere e realizzare il programma
spirituale ed apostolico di Don Bosco che, mi auguro, ci assicurerà di
“ritrovare l’origine del nostro carisma, il fine della nostra missione e il
futuro della nostra Congregazione”. [24]
Nella lettera di
convocazione del prossimo Capitolo Generale vi confidavo appunto di aver
“maturato la convinzione che la Congregazione oggi ha bisogno di risvegliare il
cuore di ogni confratello con la passione del ‘Da mihi animas’ e così riprendere
“l’ispirazione, la motivazione e l’energia per rispondere alle attese di Dio e
ai bisogni dei giovani”. [25]
I nostri cuori si risveglieranno, solo
se riusciranno davvero a sentire la passione di Dio per i suoi, anzi a sentirla
insieme con Lui. E non c’è cammino più spedito ed efficace che la celebrazione
eucaristica; poiché “l’Eucaristia non è solo fonte e culmine della vita della
Chiesa; lo è anche della sua missione… Non possiamo accostarci alla Mensa
eucaristica senza lasciarci trascinare nel movimento della missione che,
prendendo avvio dal Cuore stesso di Dio, mira a raggiungere tutti gli uomini.
Pertanto, è parte costitutiva della forma eucaristica dell’esistenza cristiana
la tensione missionaria”. [26]
Senza vita eucaristica
non c’è, dunque, vita apostolica. Don Bosco, “uomo eucaristico”, [27]
è per noi paradigma esemplare, la prova
decisiva: “egli promise a Dio che fin l’ultimo suo respiro sarebbe stato per i
giovani. E fu veramente così. La partecipazione sacramentale al sacrificio di
Cristo porta ad immedesimarci nei suoi sentimenti apostolici e nella sua
generosa dedizione per le esigenze del Regno” Così scriveva Don Vecchi,
aggiungendo: “l’elemento che più di ogni altro rivela fino a che punto il
mistero eucaristico segna la vita di Don Bosco […] è il rapporto con la carità
pastorale che egli ha espresso nel motto ‘Da mihi animas, cetera tolle’. Queste
parole […] sono il proposito e il cammino di Don Bosco per configurarsi a
Cristo, che offre al Padre la propria vita per la salvezza degli
uomini”. [28]
Come lui, il salesiano trae
dall’Eucaristia “conforto e spinta per essere, anche nel nostro tempo, segno
dell’amore gratuito e fecondo che Dio ha verso l’umanità”. [29]
“Tenete pertanto gli occhi sempre fissi
su Don Bosco – ci incoraggiava il compianto Giovanni Paolo II –. Egli viveva
interamente in Dio e raccomandava l’unità delle comunità attorno
all’Eucaristia”. [30]
Se diventare missionari
dei giovani, appassionati della loro salvezza, ci spinge a vivere
eucaristicamente, l’essere consacrati a Dio, per Lui appassionati, ci obbliga a
diventare uomini dell’Eucaristia per “coerenza eucaristica, a cui la
nostra esistenza è oggettivamente chiamata”. [31]
Ê facile da capire: “memoria vivente
del modo di esistere e di agire di Gesù come Verbo incarnato di fronte al
Padre e di fronte ai fratelli”, [32]
i consacrati vivono per fare memoria
sacramentale, quindi efficace, del sacrificio di Cristo o, ancora meglio,
per essere memoria del Cristo che si sacrifica e continua a consegnarsi per noi
e per gli altri attraverso noi. L’efficacia sacramentale della memoria
eucaristica non si limita a ricordare la consegna pro nobis di Gesù;
tende pure, e qui si gioca la sua reale efficacia, alla consegna della propria
vita da parte di quelli che fanno memoria di Lui. Come tutti i battezzati, ma in
modo più consono ed esigente, i religiosi, “partecipando al sacrificio
eucaristico, fonte e apice di tutta la vita cristiana, offrono a Dio la Vittima
divina e se stessi con essa”; [33]
ed è per mezzo di questa offerta di sé
che diventano memoria viva di Cristo: la consegna della loro vita ripete,
e proprio così ‘ricorda’, il sacrificio di Cristo. I consacrati vivono
eucaristicamente non tanto se celebrano spesso l’Eucaristia, ma perché spendono
la vita per gli altri.
Noi salesiani, in quanto
consacrati che hanno scelto Cristo come unico senso della propria esistenza, non
possiamo non desiderare di instaurare con Lui una comunione esistenziale più
piena, quella appunto che si attualizza nel dono della propria vita.
L’Eucaristia, celebrata nel sacramento quando riceviamo il dono del Corpo
consegnato di Gesù e, soprattutto, celebrata con la vita ogni volta ci
consegniamo in corpo e anima agli altri, “è viatico quotidiano e fonte della
spiritualità del singolo e dell’Istituto. In essa ogni consacrato è chiamato a
vivere il mistero pasquale di Cristo, unendosi con Lui nell’offerta della
propria vita al Padre mediante lo Spirito”. [34]
Cari confratelli, non
riesco a pensare a noi come salesiani consacrati se non riusciamo a trovare
“nella celebrazione eucaristica e nell’adorazione la forza per la sequela
radicale di Cristo obbediente, povero e casto”. [35]
Come potremmo rispondere alla nostra
vocazione, personale e comunitaria, se non viviamo dalla e per
l’Eucaristia?
1.3 L’Eucaristia
nella vita dei confratelli
Ho l’impressione, ve lo
confesso un po’ impensierito, che tra noi non tutti sono riusciti a fare il
cammino che la Chiesa e la Congregazione aspettavano da noi. Dallo studio delle
relazioni delle visite straordinarie alle Ispettorie, come pure nelle mie visite
d’animazione, sono venuto ad apprendere che c’è in Congregazione un certo
deficit di vita eucaristica, anomala situazione per altro non nuova; Don
Vecchi, infatti, l’aveva già identificata e descritta con
accuratezza; [36]
anche solo, ed è un esempio, guardando
alla qualità delle nostre celebrazioni comunitarie, egli accennava “alla
confusione, alle esaltazioni della spontaneità, alla fretta, alla
sottovalutazione della gestualità e del linguaggio simbolico, alla
‘secolarizzazione della domenica’”. [37]
Se questa mia percezione
fosse corretta, ci sarebbe motivo fondato di preoccupazione. Certo, questo stato
non è esclusivo di noi, tocca l’intera comunità cristiana; lo manifestava con
“profondo dolore”, Giovanni Paolo II, che scrisse appunto l’Enciclica
Ecclesia de Eucharistia: per “contribuire efficacemente a che vengano
dissipate le ombre di dottrine e pratiche non accettabili, affinché l’Eucaristia
continui a risplendere in tutto il fulgore del mistero”. [38]
Ma nel nostro caso, una mancata o
insufficiente vita eucaristica colpirebbe in pieno un elemento fondante del
carisma e della pedagogia salesiana; chiamati come siamo “tutti e in ogni
occasione a essere educatori alla fede […] camminiamo con i giovani per condurli
alla persona del Signore risorto” (Cost. 34).
E ben sappiamo che per
Don Bosco “la attrattiva e il desiderio dell’Eucaristia sono […] il posto dove è
possibile scoprire la radicazione della fede e della carità, il gusto per le
cose celesti e, conseguentemente, il grado di perfezione cristiana”. Gesù,
soprattutto Gesù eucaristico, “domina la vita spirituale di Don Bosco e
dell’ambiente che ha lui al centro […] È questo il Gesù con il quale Don Bosco
stesso colloquia nella visita quotidiana, fatta al pomeriggio in chiesa; il Gesù
davanti al quale colloca i suoi giovani in preghiera, quando si reca in città ad
elemosinare per loro. Trattando con lui negli anni della vecchiaia, in cui non
riesce più a controllarsi pienamente, Don Bosco tradisce il proprio affetto e le
sue Messe sono bagnate di lagrime”. [39]
Da educatore, Don Bosco
innalzò a “principio di pedagogia” [40]
quella che era sua convinzione di fede
ed esperienza personale: “la frequente confessione, la frequente comunione, la
messa quotidiana sono le colonne che devono reggere un edificio educativo, da
cui si vuole tener lontano la minaccia e la sferza”. E con accortezza educativa
aggiungeva: “non mai obbligare i giovanetti alla frequenza de’ santi Sacramenti,
ma soltanto incoraggiarli e porgere loro comodità di
approfittarne”. [41]
Questi principi di pedagogia eucaristica
furono applicati a Valdocco “alla lettera” e coinvolsero “come indirizzo
generale” l’intero sistema educativo. [42]
Il deficit di vita
eucaristica che, a mio avviso, si può nascondere e crescere dietro una vita
comunitaria regolare e una prassi apostolica a volte frenetica, si manifesta,
basicamente, in primo luogo, con l’incapacità di fare della celebrazione
dell’Eucaristia “l’atto centrale quotidiano di ogni comunità, vissuto come una
festa” (Cost. 88) e, in secondo luogo, nell’assenza di quello “stupore
per il mistero di Dio”, [43]
che nasce nella assidua contemplazione
del suo amore senza limiti svelato nel Cristo eucaristico, la cui presenza
“nelle nostre case è per noi, figli di Don Bosco, motivo di frequenti incontri”
(Cost. 88). Il mistero eucaristico, però, “non consente riduzioni né
strumentalizzazioni; va vissuto nella sua integrità, sia nell’evento
celebrativo, sia nell’intimo colloquio con Gesù appena ricevuto nella comunione,
sia nel momento orante dell’adorazione eucaristica fuori della Messa.
Allora la
Chiesa viene saldamente edificata”. [44]
Determinare i sintomi del
malessere non è ancora diagnosticare la sua vera causa. Personalmente sono
convinto che le mancanze che emergono nella nostra prassi eucaristica sono
insite, in certo senso, nell’essenza stessa del sacramento eucaristico ma
crescono, e restano, nell’intimità del nostro cuore. “La possibilità per la
Chiesa di «fare» l’Eucaristia è tutta radicata nella donazione che Cristo le ha
fatto di se stesso […]. Così anche noi in ogni celebrazione confessiamo il
primato del dono di Cristo […]. Egli è per l’eternità colui che ci ama per
primo”. [45]
Questa “precedenza, non solo cronologica
ma anche ontologica”, dell’amore di Dio ci sconvolge. L’Eucaristia è mistero
perché in essa ci è svelato tanto amore (cf. Gv 15,13), un amore così
divino che, oltrepassando le nostre capacità, ci sopraffa e ci lascia
sbalorditi. Anche se non sempre ne siamo consapevoli, di solito troviamo
difficoltà a ricevere il dono dell’Eucaristia, l’amore di Dio reso manifesto
nella consegna del corpo di Cristo (cf. Gv 3,16), che eccede la nostra
capienza e sfida la nostra libertà; Dio è sempre più grande del nostro cuore ed
arriva dove non possono i nostri migliori desideri.
E proprio perché danno
per non possibile, non ragionevole, smisurata, una tale volontà di darsi di Dio,
alcuni accumulano scuse per non riceverlo nella celebrazione sacramentale ed
evitano di contemplarlo nel silenzio che adora. Un amore tanto estremo ci
spaventa, svela la povertà radicale del nostro essere: il bisogno profondo di
amare non ci lascia tempo, né energie, per lasciarci amare. E, così, preferiamo
essere indaffarati, rifugiarci nel fare tanto per gli altri e dare loro tanto di
noi, [46]
e ci priviamo dello stupore di saperci
tanto amati da Dio. Rendercene conto ci obbligherebbe a sentirci, e volerci,
indebitati per sempre con Dio, del cui amore, adorato nella contemplazione e
ricevuto nella comunione eucaristica, mai saremmo liberi.
2. RICORDANDO L’ESPERIENZA DEI DISCEPOLI
Non dobbiamo
meravigliarci. Questa incapacità non è nuova; anzi, è connaturale a chi segue
Gesù da vicino. Chi la sente – non chi la consente! – si conferma come vero
discepolo, poiché solo la avverte chi riceve Cristo, in corpo e sangue, come
dono inatteso, gratuito ed incomprensibile. Chi ci ha detto che accettare
Cristo, pane di vita, è una cosa pacifica, che possiamo dare per scontata, che
non richiede preparazione, che non porta delle conseguenze? Niente affatto! Non
è questo la testimonianza del Nuovo Testamento.
2.1 La prima
defezione dei discepoli (Gv 6,66-71) [47]
Ce lo ricorda il
quarto vangelo. Quando Gesù, nella sinagoga di Cafarnao, si identificò come pane
del cielo e offrì la sua carne come vero cibo e il suo sangue come vera bevanda
(cf. Gv 6,55.59), “molti dei suoi discepoli”, per la prima volta,
manifestarono pubblicamente la loro incapacità di “digerire queste parole”
(Gv 6,60).
Nel vangelo di
Giovanni, non dimentichiamolo, i discepoli incominciano a seguire un Gesù che
passava, avvertiti dal Battista ed incuriositi sul luogo della sua dimora
(Gv 1,35-38); non furono chiamati personalmente da Gesù (cf. Mc
1,16-20), furono essi a voler fermarsi presso di lui (Gv 1, 39).
Cominciarono a credere in lui solo quando, mancato il vino durante uno
sposalizio a Cana di Galilea, Gesù intervenne a procurarlo in abbondanza agli
invitati (Gv 2,1-11). Tuttavia quella fede, nata in un banchetto, morì
quando fu annunziato un altro, nuovo e stupendo convito, in cui Gesù non sarebbe
più padrone di casa né commensale, ma cibo e bevanda a tavola. Gesù si rivela
non tanto come qualcuno che dà da mangiare, ma come uno che si dà a mangiare
(Gv 6,55-56).
Questa sorprendente
promessa Gesù fece dopo aver sfamato un’ingente folla, “cinquemila uomini circa”
(Gv 6,10), presentandosi, il giorno dopo, come “il pane della vita”
(Gv 6,35), proprio perché, se mangiato, farà vivere per sempre (Gv
6,58). All’incredulità della gente si aggiunse lo scandalo dei discepoli e la
diserzione di molti. [48]
Per la prima volta, purtroppo non
ultima, Gesù, pane del cielo, provocò dissenso tra i suoi e l’abbandono di
tanti: la fedeltà dei seguaci fu messa alla prova quando Gesù annunziò loro la
donazione del suo corpo come cibo vero e del suo sangue come vera bevanda. I
discepoli, che avevano visto Gesù moltiplicare il pane (Gv 6,9.13) e
camminare sul mare (Gv 6,19), non potevano capire che la vita eterna si
raggiungesse alimentandosi della sua carne. Così, mentre Gesù annunzia la
consegna di se stesso, i discepoli mormorano (Gv 6,61) e una maggioranza
si tira indietro (Gv 6,66).
Casuale? No,
assolutamente! Questo discorso (Gv 6,60a), l’offerta di sé,
fu – e rimane – un vero ostacolo, pietra di scandalo,
per i più intimi. Al discepolo sempre diventerà più facile seguire Gesù che
mangiarlo; gli sarà più digeribile accompagnarlo che averlo come cibo. Non bastò
al discepolo allora, e non basterà mai, seguire il Maestro; egli dovrà
alimentarsi della sua parola e del suo corpo. Che Gesù offra il suo corpo come
vero alimento di vita è duro, inaccettabile (Gv 6, 51-58), sì da mettere
alla prova la nostra capacità d’ascolto.
Afferma
l’evangelista che Gesù conosceva fin dall’inizio l’incapacità alla fede di
molti dei suoi discepoli (Gv 6,60.66). La delusione personale del
discepolo, consumata da molti, prima nell’abbandono e poi nel tradimento, è
spiegata da Gesù teologicamente. L’enigma dell’infedeltà del discepolo riceve
così una risposta paradossale: non crede chi vuole, ma colui cui è dato di
credere; la fede e la fedeltà sono effetto della grazia di Dio (Gv
6,64-65). E più scandaloso ancora: la mera permanenza con Gesù, la convivenza
con lui, non basterà; infatti, l’evangelista ci ricorda che, tra coloro che
restarono con Gesù, c’era pure il traditore. E Gesù lo sapeva (Gv 6,64;
cf. 13,27): chi non gli è stato consegnato dal Padre (Gv 6,65), lo
consegnerà (Gv 6,70-71). L’elezione personale da parte di Gesù non
costituisce ancora una salvaguardia contro la
defezione.
Ma dove si è
consumato l’abbandono, là può saldarsi la fedeltà. I discepoli saranno incapaci
di comprendere e di restare fedeli, se continuano ad afferrarsi alle proprie
evidenze, alle apparenze superficiali; crederanno, invece, quelli ai quali “è
stato concesso dal Padre” (Gv 6,65): non potranno sentirsi attratti da
Gesù, né diventare suoi commensali coloro che non sono stati condotti a lui da
Dio. Accogliere Cristo come pane donato è dono del Padre; e solo quel credente
che sa d’essere dono di Dio a Cristo potrà mangiare il corpo di Cristo e bere il
suo sangue senza mettere a rischio la propria vita.
La grazia della
fedeltà è stata concessa ad alcuni pochi, i dodici, [49]
che rimangono. Il loro portavoce, Simone
Pietro, riconosce che non sanno dove andare; rimangono perché – ecco il motivo
autentico della fede – solo Gesù ha parole di vita, solo Lui promette vita senza
fine (Gv 6,68). “Abbiamo creduto e abbiamo conosciuto” (Gv
6,69), dice a nome di tutti; perché conoscere Gesù è simultaneo al credere in
lui: lo si conosce credendo, fidandosi di lui; e solo chi si fida, resta fedele.
La fedeltà non fiorisce sulla propria buona volontà, né sui migliori desideri;
nasce dal volere di Dio, che ci ha amati, sempre, per primo. La fedeltà diventa
possibile solo se si riceve come grazia.
2.2
L’abbandono consumato dai Dodici (Mc 14,17-31) [50]
Una fedeltà
promessa non è ancora fedeltà provata. A Cafarnao i Dodici scelsero di restare
con Gesù; ma, anche se avvertiti durante l’ultima cena, al Getsemani “tutti,
abbandonandolo, fuggirono” (Mc 14,50). Si erano impegnati a rimanere con
chi si era offerto loro come pane di vita; ma quando Gesù fece realtà la sua
promessa (Mc 14,22-25), dovette preannunciare il tradimento da parte di
uno (Mc 14,17-21), il rinnegamento di un secondo (Mc 14,29-30) e
lo scandalo e la fuga di tutti gli altri (Mc
14,26-27).
È realmente
tragico, e in questo tutti i quattro vangeli sono concordi, che l’ infedeltà dei
discepoli, il suo preannuncio (Mc 14,17-21; Mt 26,20-25; Lc
22,14.21-23; Gv 13,21-30) e il suo compimento (Mc 14,26-42;
Mt 26,30-46; Lc 22,33-34.40-46; Gv 13,37-38), abbiano come
contesto un pasto con Gesù, l’ultima cena (Mc 14,22-25; Mt
26,26-29; Lc 22,15-20), dove Gesù mise in atto la sua promessa di
consegnarsi come pane e vivo (Mc 14,22.24). L’annuncio del tradimento in simile
contesto, oltre ad unire morte di Gesù ed Eucaristia, dono della vita e del pane
di vita, fa sì che la consegna di sé sulla croce sia l’ultimo, e il più
difficile, degli scandali cui i discepoli dovranno far fronte. Durante l’ultima
cena, la prima Eucaristia, la tenebra era ancora nel cuore dei discepoli: solo
l’ora della croce dissiperà la notte (Gv
13,1.27).
2.2.1 Seguire
Gesù non ci assicura di non tradirlo
Marco, il primo
cronista della passione e morte di Gesù, narra il tradimento di Giuda in tre
scene scandite lungo il racconto dell’ultimo giorno di Gesù, prima della sua
morte (Mc 14,1-72). Con sorprendente neutralità, il narratore mostra la
decisa volontà di Giuda di consegnare Gesù alle autorità e l’impegno risoluto di
Gesù di consegnare se stesso. Il piano è concepito da “Giuda Iscariota, uno dei
Dodici”, che si offre ai sommi sacerdoti “per consegnare loro Gesù… e cercava
l’occasione opportuna per consegnarlo” (Mc 14,10). Gesù, “mentre erano a
mensa e mangiavano” (Mc 14,18), prima ancora di istituire l’Eucaristia
(Mc 14,22-25), svela il prossimo tradimento e il traditore. Al Getsemani
poi, in piena notte, Giuda si presenterà con “una folla con spade e bastoni” e
paradossalmente tradirà Gesù con un bacio, come se fosse suo amico (Mc
14,43-49).
Né l’impegno preso
di tradire Gesù fa che Giuda rinunci a prendere posto a tavola con Gesù, né
l’essere commensale accanto a lui (Mc 14,18) e aver intinto la mano nel
piatto unico (Mt 14,20) fa che egli desista dal suo proposito (Mc
14,45-46). Stupisce perciò che mentre Giuda si prepara a consegnare Gesù, Gesù
consegna se stesso ai suoi nel pane spezzato e nel vino versato. Se la presenza
alla prima celebrazione della cena eucaristica non salvò Giuda dalla fellonia di
tradire il suo Maestro, la presenza del traditore non impedì a Gesù di
consegnarsi per tutti. E questo vuol dire che, oggi come ieri, si può
partecipare all’Eucaristia e nel contempo alimentare nel cuore slealtà e
malafede. Anche Giuda aveva lasciato tutto, un giorno, per essere con Gesù (cf.
Mc 3,13); ma dopo finì per lasciarlo nelle mani dei nemici per denaro
(Mc 14,11).
Ma forse peggio
ancora che il tradimento da parte di uno è l’insicurezza di tutti: gli altri
discepoli, superata la sorpresa iniziale, sono tanto incerti della loro fedeltà
da chiedere a Gesù, uno dopo l’altro, se fosse lui l’annunciato traditore: “Sono
forse io?” ((Mc 14,19). Nell’ultima cena tutti ricevono il pane che è suo
corpo e il vino che è sangue della nuova alleanza (Mc 14, 22-23); uno di
loro però continua a pensare a tradire Gesù e gli altri non sono sicuri di
restargli fedeli.
Questo brano del
vangelo di Marco è veramente sconvolgente, e non solo perché ci narra quanto è
accaduto tra Gesù e i suoi amici, ma soprattutto perché resta attuale anche
oggi. Essere stato eletto personalmente come compagno da Gesù (Mc 3,13),
diventare commensale a tavola dove Gesù serve un pane che è suo corpo, non è
garanzia di fedeltà. I Dodici, quelli che erano rimasti con Gesù perché aveva
parole di vita (Gv 6,68), crollarono tutti in quella notte dell’ultima
cena. Ci chiediamo: come mai essere con lui non è sufficiente per restare con
lui? Come mai mangiare con lui non basta per rimanere fedeli?
2.2.2 Promettere
molto a Gesù non ci libera dal
rinnegarlo
Non basta nemmeno
la promessa espressione di un amore entusiasta, autentico sì ma immaturo. In
effetti, subito dopo aver finito di mangiare, istituita ormai l’Eucaristia, nel
cammino verso il monte degli Ulivi, Gesù annunziò che Pietro lo avrebbe
rinnegato per ben tre volte (Mc 14,26-31); Pietro, però, lo negava con
insistenza, e “lo stesso dicevano anche tutti gli altri” (Mc 14,31). Da
una parte Gesù vuole prevenirli, ma dall’altra parte essi si ostinano nel
dichiarare la loro disponibilità, persino, a morire con il Maestro. La cosa più
drammatica è che chi ha promesso di più, di più
rinnegherà.
Pietro, che non
parla qui da portavoce dei Dodici, ribadisce il suo personale attaccamento a
Gesù: “anche se tutti…, io no” (Mc 14,29). Forte di sé, crede di poter
promettere fedeltà, convertendo la sua sicurezza in temerità; ama tanto il suo
Signore, da non voler ascoltare ed accogliere le sue predizioni: “anche se
dovessi morire con te, non ti rinnegherò” (Mc 14,31). Non si oppone alla
morte già annunziata di Gesù (Mc 8,32), anzi, si dice disposto a morire
accanto a lui. Difficilmente si potrebbe pensare maggiore amore (cf. Gv
15,13) e fedeltà; ma proprio così è messa in evidenza la distanza che li
separa. Gesù sa che Pietro lo rinnegherà ripetute volte; Pietro ripetutamente
rifiuta di accettare questa avvertenza. Il discepolo che promette fedeltà
dovrebbe ricordare Pietro: la fedeltà è frutto non delle promesse ma della
grazia, perché è la prova dell’amore sino all’estremo.
Con magistrale
destrezza, Marco mette in controluce le negazioni di Pietro nel cortile con la
confessione di Gesù davanti al sinedrio: in confronto con Gesù, che mette a
rischio la sua vita, Pietro nega tutto per salvarla (Mc 14,50-52).
L’unico discepolo che ancora inseguiva Gesù non riesce ad affrontare le domande
di alcuni servi. Pietro, l’unico che si è negato ad abbandonare Gesù, finirà per
negare di essere stato suo seguace. Pietro personifica così quei discepoli che
rinnegano il proprio Signore pur di non rinnegare se stessi (cf. Mc
8,34): un atteggiamento tutt’altro che eucaristico!
2.2.3 L’alleanza,
tradita appena istituita, va però
ricordata
Il corpo consegnato
e il sangue versato di Gesù suggellano l’alleanza e annunziano il regno di Dio
(Mc 14,24-25). L’alleanza instaurata nella cena non si circoscrive a
quelli che l’hanno appena sancita. Il sacrificio di Gesù è per molti (Mc
14,24; Mt 26,28). I Dodici sono stati i primi, ma non saranno gli
unici.
Raccontando
l’istituzione dell’Eucaristia, la tradizione evangelica non ha voluto tacere,
per nostro avvertimento, che tutti quelli che mangiarono e bevvero a tavola con
Gesù nell’ultima cena l’abbandonarono subito dopo (Mc 14,27.50). Essere
stati degni di ricevere per primi il corpo e il sangue del loro Signore non rese
loro tanto fedeli.
Il cammino di Gesù
verso il calvario inizia non quando i nemici lo catturano, ma quando i discepoli
lo abbandonano. La prossimità della croce svelò la debolezza dei discepoli e la
povertà dei loro motivi nel seguire Gesù. Nessuno può seguire Gesù e dare la
vita per lui, se Gesù non ha consegnato la sua per loro. Questo non lo sapevano
i Dodici che mangiarono con Gesù, quando si diede a loro nel pane e nel vino; ma
potranno ricordare, morto e risorto Gesù, che consegnare la vita per Lui è il
compito di chi l’ha ricevuta nella mensa eucaristica.
Questa è, appunto,
la “memoria” da fare (1 Cor 11,24), il ricordo di Gesù da ravvivare
continuamente fino a quando Lui ritornerà (1 Cor 11,26). E fare memoria
non è questione di libera elezione; è stato un preciso mandato di Gesù,
trasmesso, prima di consegnarsi, a quelli che mangiavano con lui. Pur sapendo
Gesù che i suoi discepoli non sarebbero stati fedeli, nondimeno li obbligò a
fare memoria di lui e del suo gesto. Curioso, quanto meno, questo comportamento
di Gesù! Non aspetta che i discepoli restino fedeli per comandare loro di fare
memoria di lui. Ma questo pure è grazia: per fare l’Eucaristia non c’è bisogno
di essere perfetti, basta sentirsi amati da Gesù fino
all’estremo.
2.3 Il gesto dell’ora di Gesù: amare
fino all’estremo (Gv 13,1-20) [51]
Di nuovo è il
quarto vangelo che ci offre la risposta. È ben noto il fatto, singolare e ancora
non ben spiegato, che Giovanni non ha trasmesso le parole dell’istituzione della
cena nel suo racconto della passione di Gesù e ha preferito centrarsi
nell’adempimento dell’ora di Gesù e del suo amore estremo (Gv 13,1)
“dando preminenza alla relazione del singolo credente con Gesù
Cristo”, [52]
una relazione che viene esemplificata
nel gesto che compie il Maestro di lavare i piedi ai suoi discepoli “mentre
cenavano” (Gv 13,2). L’evangelista rivela così “il senso dell’istituzione
della Santa Eucaristia […]. Gesù si china per lavare i piedi dei suoi discepoli
come segno del suo amore che arriva fino all’estremo. Questo gesto profetico
anticipa la spogliazione di sé fino alla morte in croce”. [53]
La mossa di Gesù,
inaspettata e sorprendente, [54]
solo da lui può essere spiegata
(Gv 13,6-20); ed egli lo fa, prima ancora di effettuare la lavanda dei
piedi, in dialogo con Pietro (Gv 13,6-11) e poi da maestro, seduto di
nuovo a tavola, istruendo tutti i discepoli (Gv 13,12-20). Secondo Gesù,
il gesto simboleggia il totale dono di sé, l’amore estremo ai
suoi, [55]
giunta ormai l’ora del passaggio da
questo al mondo al Padre (Gv 13,1). L’amore ai suoi conclude la sua vita,
poiché la consegna; la vita donata prova il suo amore senza limite. La lavanda
dei piedi non è altro che figura e segno di questo amore ultimo (Gv
13,5). E infatti, l’azione di Gesù, prima ancora di essere narrata (Gv
13,4-5), è già stata definita un atto concreto di amore (Gv 13,1), di
fedeltà estrema (cf. Gv 10,17-18).
Con un umile atto
di servizio reso ai suoi, Gesù costituisce la comunità dei
discepoli [56]
: chi vorrà avere parte con lui
dovrà lasciarsi servire da signore per il suo Signore (Gv 13,9.14). La
“comunione con Cristo”, che si realizza nel benedire il calice e nello spezzare
il pane (1 Cor 10,16), è presentata ora come un “aver parte” con lui
(Gv 13,8); il prezzo da pagare è, appunto, di lasciarsi servire dallo
stesso Maestro e Signore. Le obiezioni di Pietro sono più che ragionevoli
(Gv 13,8), anche se continua a non capire ed a pensare in modo umano
(Gv 13,7; cf. Gv 7,24; 8,15). Egli cerca di rifiutare un gesto
improprio, che umilia il suo Signore (Gv 13,6) e che è contrario
all’immagine, e ai desideri, che alimenta per lui (cf. Mt 16,22). Ma chi
non si lascia servire fino a questo modo estremo – assicura Gesù – rischia di
non condividere la sua sorte (Gv 13,8). Il discepolo accede all’eredità
del suo Signore solo se permette di essere da lui
servito.
Che Gesù parli sul
serio a Pietro diventa evidente da quanto aggiunge: si può essere lavati, ma non
purificati (Gv 13,10; cf. 1 Cor 11,26); si può mangiare con Gesù e
levare il calcagno contro di lui (Gv 13,18). La purificazione non è
automatica, si deve accettare, anche se viene realizzata come una umiliante
lavanda di piedi. Chi non si lascia purificare da Gesù servo, chi non lo
accoglie come lui è, come vuole diventare per noi (Gv 13,20), non merita
di restare con lui e sarà escluso dalla comunità dei credenti (Gv
13,27-30). Il traditore resta impuro, perché incredulo, ed è incredulo perché
non accetta Gesù come dono (Gv 13,11; 6,64.70.71). Chi non si lasciò
servire da Gesù non restò a lungo in comunità; anzi, continuò a mangiare bocconi
dalla mano di Gesù, ma satana fu il suo alimento (Gv 13,26-27a; cf.
Lc 22,3)! Solo chi permette a Cristo di donarsi nel pane eucaristico,
solo chi si lascia servire dal suo Signore, sarà suo compagno, non già a tavola,
ma per tutta la vita. Non è casuale che solo dopo che Giuda uscì dal cenacolo,
Gesù si ‘sentisse nella gloria’ (Gv 13,31) e comandasse ai suoi di amarsi
come lui li aveva amati (Gv 13,34-35). Gesù ha dato il comando dell’amore
a coloro che si sono lasciati amare fino all’estremo.
“Lavati i loro
piedi e riprese le vesti” (Gv 13,12a), Gesù si siede, ricupera la sua
autorità, e si mette ad insegnare ai discepoli. Il gesto da lui compiuto non
deve restare eccezionale: è modello di condotta, norma di comportamento tra
loro (Gv 13,12b-14). Gesù non vuole che rimanga un bel ricordo, esige che
si trasformi in legge dell’esistenza cristiana. Il gesto è più che un segno, è
una dimostrazione del nuovo modo di vivere in comune il discepolato di Gesù: chi
comanda in essa serve tutti (Gv 13,15; 1 Gv
3,16).
Chi si sa servo non
può sognare di diventare padrone; chi è consapevole di essere mandato non può
evitare di lasciarsi mandare; il servizio vicendevole non è opzione libera, è
norma obbligatoria di comportamento per gli inviati di Cristo (Gv 13,16).
L’adempimento del servizio fraterno è, in più, la gioia del cristiano, la sua
beatitudine (Gv 13,17). È notevole che la prima beatitudine giovannea
(cf. Gv 20,29) sia vincolata ad un fare come Gesù. Il gesto
singolare si deve convertire in pratica abituale; proprio perché non è esempio
da imitare, ma un dono da accogliere. Il come dell’azione di Gesù fonda
l’imposizione: la persona di Gesù, un suo gesto, è la norma da seguire nelle
relazioni interpersonali in comunità. Una comunità che è nata da un atto di
servizio di Gesù non può mantenersi in vita se non si ripete in essa questo
servizio. [57]
E così, il “fate
questo in memoria di me” (Lc 22,19; 1 Cor 11,24), l’anamnesi eucaristica
di obbligata esecuzione nella Chiesa, diventa in Giovanni un “fate anche voi
come me” (Gv 13,14-15). Il gesto ‘eucaristico’ da ripetere dalle
comunità cristiane sarà sempre la consegna della propria vita fino in fondo,
sino all’ultimo, ricordato sia nello spezzare del pane sia nel servizio ai
fratelli. Perché, allora, – oserei domandare - la lavanda dei piedi non è
riuscita a diventare memoria eucaristica del Signore Gesù finché lui ritorni? Il
servizio ai fratelli è, pure, modo efficace di fare memoria di Cristo. Vivere
servendo i fratelli deve costituire l’altra forma fattiva di ricordare Cristo
eucaristico.
3. ‘FARSI EUCARISTIA’
OGGI
Ripartire
da Cristo, il programma spirituale per la Chiesa
del Terzo Millennio, [58]
deve essere al “centro di ogni progetto
personale e comunitario”, ricordava ai religiosi Giovanni Paolo II, e
aggiungeva: “incontratelo e contemplatelo in modo speciale nell’Eucaristia,
celebrata e adorata ogni giorno, come fonte e culmine dell’esistenza e
dell’azione apostolica”. [59]
Non gli mancavano ragioni. Oltre ad
“aderire sempre di più a Cristo”, ripartire da lui “significa proclamare che la
vita consacrata è […] ‘memoria vivente del modo di esistere e di agire di
Gesù’”.
[60]
Ebbene, ve lo
ripeto, non c’è nessuna altra memoria di Cristo tanto efficace come quella
eucaristica: solo essa fa presente il Cristo ricordato. È vero, “nella
celebrazione eucaristica e nell’adorazione” noi consacrati, troviamo “la forza
per la sequela radicale di Cristo”. Ma non solo; il mistero dell’Eucaristia,
“viatico quotidiano e fonte di spiritualità del singolo e
dell’Istituto”, [61]
“ci attira nell’atto oblativo di Gesù.
Noi non riceviamo soltanto in modo statico il Logos incarnato, ma veniamo
coinvolti nella dinamica della sua donazione”. [62]
Fare l’eucaristia ci richiama a “vivere
il mistero pasquale di Cristo, unendoci con Lui nell’offerta della nostra
propria vita”; siamo cioè invitati a immedesimarci con Lui, facendo con la
propria vita consegnata memoria vivente del Cristo. “Infatti, partecipando al
Sacrificio della Croce, il cristiano comunica con l’amore di donazione di Cristo
ed è abilitato e impegnato a vivere questa stessa carità in tutti i suoi
atteggiamenti e comportamenti di vita”. [63]
Don Bosco lo esprimeva con quelle parole
a noi tanto care: «Io per voi studio, lavoro, mi santifico». In
definitiva, “nel ‘culto’ stesso, nella comunione eucaristica è contenuto
l’essere amati e l’amare a propria volta gli altri. Un’Eucaristia che non si
traduca in amore concretamente praticato è in se stessa
frammentata”.
[64]
“«Farsi
eucaristia», cioè dono d’amore per gli altri”, [65]
è, appunto, “il contributo essenziale
che la Chiesa si aspetta” [66]
da noi. Non ci sarà possibile dare
questo contributo alla Chiesa, se non viviamo facendo l’eucaristia e facendoci
eucaristia; l’Eucaristia è, infatti, “all’origine di ogni forma di santità […].
Quanti santi hanno reso autentica la propria vita grazie alla loro pietà
eucaristica!”, [67]
tra cui, ben lo sappiamo, pure Don
Bosco.
Per meglio
animarvi a ripartire da Cristo Eucaristia nel cammino verso la nostra santità,
“il nostro compito essenziale”, [68]
“il dono più prezioso che possiamo
offrire ai giovani” (Cost. 25), permettetemi un’ulteriore riflessione
sull’essenza della vita consacrata ed una esistenza
eucaristica.
La vita
consacrata incontra la sua identità quando rispecchia nelle sue opere la
memoria vivente del modo di esistere e di agire di Gesù. Se è tipico
della persona consacrata vivere questi valori evangelici nella stessa forma
nella quale li visse Gesù, è bene sottolineare che questo Gesù, morto e risorto,
lo incontriamo vivo e presente nell’Eucaristia: quindi “l’Eucaristia sta per sua
natura, al centro della vita consacrata, personale e
comunitaria”. [69]
Di più, potremmo dire che la vita
consacrata ha una forma di essere pienamente eucaristica, se vuole restare
coerente con se stessa. Nell’Eucaristia, infatti, i consacrati incontrano il
proprio modello e la perfetta realizzazione delle esigenze fondamentali della
loro vita.
3.1 La
vita consacrata, “vita
eucaristica”
“In questo
quadro” (quello della spiritualità eucaristica e della vita quotidiana) – e
cito una proposizione, la 39ª, del recente Sinodo sull’Eucaristia – “risplende
la testimonianza profetica delle consacrate e dei consacrati che trovano nella
celebrazione eucaristica e nell’adorazione la forza per una sequela radicale di
Cristo, obbediente, casto e povero. La vita consacrata ha qui la sorgente della
contemplazione, la luce per l’azione apostolica e missionaria, il senso ultimo
del proprio impegno con i poveri e gli emarginati e la caparra della realtà del
Regno”.
Questa
menzione sinodale all’Eucaristia non allude, innanzitutto, al Sacramento in se
stesso, né si riferisce solo alla sua celebrazione liturgica, ma al fatto che in
essa troviamo, vivo e presente, Gesù Cristo, precisamente nella sua esistenza
nel Mistero Pasquale. In questo senso si comprende perfettamente l’affermazione
di Giovanni Paolo II che l’Eucaristia di Cristo “non è un dono, pur prezioso tra
tanti altri, ma il dono per eccellenza, perché dono di
sé”.
[70]
Seguendo il
suggerimento del Sinodo, vi invito dunque a contemplare gli elementi
fondamentali della vita consacrata in chiave eucaristica, attraverso
un’immagine, allo stesso tempo semplice e suggestiva: il cuore. La professione
dei consigli evangelici, come cuore della vita consacrata, batte al doppio
movimento della fraternità (sistole) e della missione (diastole),
vissuti entrambi secondo i diversi carismi. Mi sembra di incontrare, in effetti,
una somiglianza molto profonda e significativa tra le grandi dimensioni
dell’Eucaristia, come “cuore della vita
ecclesiale”, [71]
e questo ‘cuore’ della vita consacrata
che costituisce la professione dei consigli evangelici. Come afferma Giovanni
Paolo II, “l’Eucaristia è allo stesso tempo e inseparabilmente, il
memoriale del sacrificio nel quale si perpetua il sacrificio della
Croce e il sacro banchetto della comunione al Corpo ed al Sangue del
Signore”.
[72]
3.1.1 La vita
consacrata, “memoriale” mediante
l’obbedienza
“Memoria
vivente del modo di esistere e di agire di Gesù”, la vita consacrata “è
vivente tradizione della vita e del messaggio del
Salvatore”.
[73]
La categoria
del “memoriale”, sappiamo bene, non indica una “ripetizione” dell’evento, né si
limita semplicemente a “ricordarlo”, ma lo fa presente ed attuale. La
nostra mentalità occidentale accetta con difficoltà questa attualizzazione di un
evento, anche se essa risulti fondamentale per comprendere il senso della festa
nelle culture tradizionali.
[74]
Descrivere il
memoriale come “attualizzazione dell’evento” può prestarsi ad una certa
comprensione “mitica”, come se la storia della salvezza non fosse formata da
eventi unici ed irripetibili, inclusa la morte del Signore (cf. Ebr 7,27;
9,12; 10,10). Sarebbe preferibile parlare, più che di un “avvenimento che si
attualizza”, della presenza viva, reale, del protagonista di questo evento, Gesù
Cristo, morto e risorto. La vita consacrata solo può essere memoriale di
Gesù Cristo se continua a far presente, in tutti i tempi e in tutti i luoghi, la
stessa forma di vita. E questo, precisamente, costituisce il nucleo
dell’obbedienza consacrata e che Don Bosco esprimeva con la sua rinomata frase;
“Io sono sempre sacerdote…”.
Una lettura
attenta dell’Esortazione apostolica Vita Consecrata scopre che il fulcro
e il centro dei consigli evangelici è collocato nell’obbedienza: questo non fa
altro che riflettere la testimonianza della tradizione biblica. Nell’AT
incontriamo l’obbedienza come principale espressione della fede: i grandi
credenti sono, di conseguenza, grandi obbedienti. Alla soglia del NT
incontriamo Maria, Colei che credette ed accettò pienamente di collaborare con
Dio nel suo progetto di salvezza. E soprattutto, l’intera vita di Gesù, fin
dalla sua incarnazione (cf. Ebr 10, 5.7; Gv 6,38), la sua missione
(cf. Mc 1, 38; Lc 4, 43, Gv 4, 34), e, soprattutto, la sua
passione (cf. Mc 14, 36; Gv 12,27-28; Ebr 5, 7-9) è un
cammino continuo di perfetta obbedienza.
[75]
In più,
secondo Vita Consecrata, tanto la verginità quanto la povertà sono, in un
certo modo, la conseguenza dell’obbedienza: “Egli è l’obbediente per
eccellenza (...). È in tale atteggiamento di docilità al Padre che, pur
approfondendo e difendendo la dignità e la santità della vita matrimoniale,
Cristo assume la forma di vita verginale e rivela così il pregio sublime e la
misteriosa fecondità spirituale della verginità. La sua piena adesione al
disegno del Padre si manifesta anche nel distacco dai beni terreni (...). La
profondità della sua povertà si rivela nella perfetta oblazione di tutto ciò
che è suo al Padre”.
[76]
L’elemento
memoriale non si riduce semplicemente alla celebrazione liturgica nella quale si
ripetono le parole di Gesù “Questo è il mio corpo offerto in sacrificio per voi”
e, dunque, non consiste nel rifare sacramentalmente un evento che è accaduto una
volta per tutte, ma nel renderlo presente nell’Eucaristia (“fare
eucaristia”) e nel diventare memoria vivente del suo modo di essere e di
agire (“farsi eucaristia”). Questo prolungamento della consegna totale
del Cristo nella vita di ognuno dei consacrati si compie attraverso il voto di
obbedienza. Il voto di obbedienza è il voto che meglio esprime questa totale
appartenenza a Dio, questa totale consegna a Dio fino al punto di non avere
altra cosa da fare che identificarsi con la volontà del Padre. E allora la
spiritualità eucaristica non è soltanto celebrare con decoro, con devozione l’
Eucaristia. Si deve tradurre in una vita di obbedienza, lì dove davvero si fa il
memoriale di Cristo e diventiamo una memoria vivente
sua.
3.1.2. La vita
consacrata, “sacrificio” attraverso la
castità
La seconda
grande dimensione dell’Eucaristia è il sacrificio. Non è qui il caso di
entrare nella discussione se la riforma postconciliare abbia oscurato, o
addirittura emarginato, il carattere sacrificale della celebrazione
eucaristica. [77]
I testimoni biblici, sia nella
tradizione sinottica sia in quella paolina, sono concordi nell’attestare che
- Gesù
stabilì un parallelo tra il pane spezzato e il proprio corpo (Mc 14, 22;
Mt 26,26: Lc 22,19; 1 Cor 11, 24).
- Gesù
definì un paragone tra il vino (che doveva essere bevuto durante la cena
pasquale) e il suo sangue, aggiungendo che mediante il suo sangue si realizza la
Nuova Alleanza (Mc 14,24; Mt 26,28; Lc 22,20; 1 Cor
11,25).
- La
presenza dell’espressione per nei cinque testi appunta tutta l’attenzione
su “per chi” è stato consegnato il corpo e sparso il sangue (Mc 14,24;
Mt 26,28; Lc 22,20).
[78]
La storia
recente sul senso sacrificale dell’Eucaristia – derivato, evidentemente, dal
Mistero Pasquale – ci lascia un insegnamento arricchente: non è la sofferenza,
ma l’amore, il centro della redenzione come opera del Padre, attraverso Cristo,
nello Spirito: Gesù dà la propria vita come massima espressione del proprio
amore, come il suo dono più grande! “Nessuno ha un amore più grande di questo:
dare la vita per i propri amici” (Gv 15,13).
Si è soliti
affermare che l’Eucaristia è “memoriale” della morte e risurrezione del Signore,
ma ciò non è esatto se ci si riferisce alla prima Eucaristia, l’Ultima
Cena. In realtà non fu solo anámnesis, memoria, ma prolepsis,
anticipazione: precedette, dandone pieno senso, quello che sarebbe successo
sul Golgota. “A questo atto di offerta Gesù ha dato una presenza duratura
attraverso l’istituzione dell’Eucaristia, durante l’Ultima Cena. Egli anticipa
la sua morte e resurrezione donando già in quell’ora ai suoi discepoli, nel pane
e nel vino se stesso, il suo corpo ed il suo sangue come nuova
manna”.
[79]
Senza la
celebrazione dell’Ultima Cena, non avremmo la prova più forte e immediata del
senso che Gesù volle dare alla propria morte. Detto in altre parole: il
“sacrificio incruento” (per amore) precede il “sacrificio cruento” (la
morte di Gesù sulla croce). Questo aspetto fondamentale dell’Eucaristia in
quanto sacrificio come espressione suprema dell’amore di Gesù per noi,
sta in intima relazione con la castità consacrata.
L’essere
umano è chiamato a realizzarsi nell’amore, e questo, nell’espressione piena
della consegna, implica la donazione totale del corpo. La forma consueta di
questa consegna è il “linguaggio” sessuale; in essa il corpo è protagonista,
sebbene sia sempre nascosto il pericolo che non implichi la donazione totale
della persona e, in tal caso, diventerebbe una menzogna, visto che per sua
natura è una consegna esclusiva ed escludente. [80]
La consegna sessuale non è, con questo,
l’unico modo per consegnare il corpo come espressione dell’amore; troviamo in
Gesù la consegna eucaristica come la più profonda
espressione dell’amore, poiché qui il corpo è il segno e lo strumento della
consegna della persona, il vero protagonista dell’amore, e inoltre non ha limiti
di estensione: è “per i tanti”. Gesù non vive il suo amore e la consegna totale
di se stesso in “chiave sessuale”, li vive in chiave
eucaristica.
Ecco, per noi
consacrati, il cammino speciale con cui viviamo, in pienezza, il nostro amore e
la conseguente consegna che questo implica: ci asteniamo dal consegnare il corpo
e gli affetti ad una sola persona, per darci totalmente a tutti. Senza dubbio,
anche qui si può incorrere nel pericolo “simmetrico” alla consegna sessuale: lì
si poteva consegnare il corpo senza consegnare la persona; qui si può dare la
falsa consegna della persona senza la consegna totale del proprio corpo, senza
quel “consumarsi e logorarsi” anche fisicamente, che è l’espressione autentica e
irrinunciabile dell’amore vissuto in chiave
eucaristica.
In questo
modo si realizza, dunque, la doppia dimensione della castità consacrata, la
‘sistole’ della vita in fraternità e la ‘diastole’ della consegna
totale nella realizzazione della missione. “Nell’Eucaristia la verginità
consacrata trova ispirazione ed alimento per la sua dedizione totale a
Cristo”; [81]
l’Eucaristia è, pure, fonte e culmine
della vita e missione della Chiesa, poiché "non possiamo tenere per noi l’amore
che celebriamo nel Sacramento. Esso chiede per sua natura di essere comunicato a
tutti”. [82]
In ambedue le direzioni, come
espressione di un amore di agape, che non ignora la realizzazione
dell’eros, ma che lo assume in modo che si converta in un amore
percettibile, affettuoso, e non solamente oggetto di fede, perché è impossibile
da vedersi.
[83]
3.1.3 La vita
consacrata, “convito” attraverso la
povertà
Vediamo
infine la vita consacrata dalla prospettiva dell’Eucaristia in quanto
convivio. Dal punto di vista antropologico, è uno dei temi biblici più
suggestivi: il “mangiare insieme” costituisce, per le culture tradizionali di
tutte le latitudini, una delle esperienze di convivenza, ed insieme di
“fraternità”, più intense e significative: “comunità di mensa è comunità di
vita”.
[84]
Uno dei
tratti più caratteristici del ministero di Gesù fu, precisamente, aver fatto
pratica abituale del mangiare insieme, in particolare con i piccoli, i poveri,
gli emarginati e, soprattutto, i “pubblicani e i peccatori” (Lc 5,29-30;
15,2). Ammettendo le persone religiosamente e moralmente proscritte alla
comunità della mensa, Gesù significava che Dio trova gioia nell’offrire salvezza
ai peccatori e concedere loro il suo perdono.
[85]
Non solo nel
fare di Gesù incontriamo il convito come espressione della vicinanza
salvifica di Dio; appare anche nella sua predicazione, soprattutto nelle
parabole come simbolo privilegiato del Regno (Mt 8, 11; 22, 1-14;
Lc 12, 35-57; 14, 12-24; 15, 23-32; 19, 5-10). C’è in queste un dato
fondamentale, che difficilmente si incontrerà in altri atteggiamenti di Gesù, ed
è l’assoluta gratuità di Dio nell’invitare al convito. Nessuno è degno di
partecipare a questo; per cui, il migliore atteggiamento è quello del bambino
(cf. Mc 10, 15), che riceve con gioia e gratitudine ciò che gli viene
dato, perché non lo merita; è l’atteggiamento del povero, dell’indigente,
del derelitto, di colui che sta nelle piazze e nelle strade perché non ha dove
vivere (cf. Lc 14, 21; Mt 22, 8-10). Invece, colui che si attiene
alle rigide norme della ‘giustizia’ si indignerà, e neanche vorrà entrare al
banchetto della festa per il ritorno del fratello (cf. Lc 15, 25-32), o
avrà tanti impegni, che rifiuterà con orgoglio un invito così gratuito quanto
intempestivo (cf. Lc 14,
18-20).
La dimensione
del convito si riflette, nella vita religiosa nel suo
significato più vero, nella vita di povertà, non come mancanza naturale o
privazione volontaria, ma come condivisione di ciò che si è e di ciò che
si ha, come qualcosa di totalmente gratuito; tanto è così che il primo
racconto dell’istituzione dell’Eucaristia (1 Cor 11, 17-34) ha come
Sitz im Leben una situazione della comunità nella quale si celebrava la
Cena del Signore senza condividere i propri beni con chi ne aveva necessità;
lontani stavano i Corinzi dall’ideale lucano della comunità, nella quale “tutti
coloro che erano diventati credenti stavano insieme e tenevano ogni cosa in
comune [...]. Ogni giorno tutti insieme frequentavano il tempio e spezzavano il
pane a casa prendendo i pasti con letizia e semplicità di cuore” (At 2,
44. 46; cf. 4,32).
La povertà
della persona consacrata non esprime nessun tipo di rifiuto dei beni materiali,
né ritiene che lo spogliarsi totalmente di ogni bene sia un ideale da
raggiungere, come può esserlo in alcuni tipi di religiosità orientale. Il
povero, perché credente, accetta con semplicità e sobrietà i doni di Dio, li
condivide come espressione del suo amore, in un duplice movimento: all’interno
della comunità fraterna, nella condivisione totale dei suoi beni, e verso
l’esterno, nell’invito a partecipare a questo “banchetto del Regno”, con una
predilezione evangelica, che è opzione del Dio rivelato, per i più poveri e gli
abbandonati, per gli emarginati, per i peccatori, per tutti gli umanamente
insignificanti. Non è l’invito interessato agli amici e ai parenti (cf. Lc 14,
12-13; Mt 5, 46-47), che non avrebbe senz’altro nulla di male, ma che non
diventa ‘segno evangelico’, né produce lo scandalo salutare di riconoscere che
quello “lo fanno anche i pagani” (Mt 5,47). La povertà evangelica diventa
libertà per poter andare ad invitare i lontani al banchetto del Regno,
l’ardore missionario che nasce solamente nel cuore del povero, che letteralmente
“non ha nulla da perdere” e tutto da guadagnare... per Cristo ed il suo
Regno.
3.2 Il
salesiano, uomo
dell’Eucaristia
Tra mistero
dell’Eucaristia e vita consacrata c’è una così intima relazione che l’una non
trova spiegazione né fondamento senza l’altra. Il consacrato, se vuole essere e
rimanere tale, deve diventare uomo dell’Eucaristia; la consacrazione religiosa,
infatti, ha “una struttura eucaristica: è totale oblazione di sé” e, proprio
perciò, resta “strettamente associata al sacrificio
eucaristico”.
[86]
Affermata la
centralità dell’Eucaristia per ciascuno di noi e per la Congregazione, vorrei
accennare, anche se brevemente, al modo con cui essa, “viatico quotidiano e
fonte di spiritualità”, [87]
modella “la forma eucaristica
dell’esistenza”, giacché favorisce la conformazione a Cristo, ci rende, cioè,
persone eucaristiche. Parto dalla dinamica interna dello stesso Sacramento, che
porta dalla celebrazione di un rito alla conformazione con il
mistero; dall’ adesione effettiva, la più intensa che può darsi nella
consegna della propria vita, alla adorazione del Signore crocifisso e
risorto presente nell’Eucaristia; dalla contemplazione del Cristo
consegnato alla missione di trasformarsi in pane spezzato per gli
altri.
3.2.1 Dalla
celebrazione alla conformazione
Nell’Eucaristia, “l’atto centrale
quotidiano di ogni comunità salesiana” (Cost. 88), “si rivela il disegno
di amore che guida tutta la storia della salvezza (cf. Ef 1,10; 3,8-11).
In essa il Deus Trinitas, che in se stesso è amore (cf. 1 Gv
4,7-8), si coinvolge pienamente con la nostra condizione umana. Nel pane e nel
vino […] è l’intera vita divina che ci raggiunge e si partecipa a noi nella
forma del Sacramento. […] Si tratta di un dono assolutamente gratuito, che
risponde soltanto alle promesse di Dio, compiute oltre ogni
misura”. [88]
Chi celebra
l’Eucaristia non solo confesserà con stupore e riconoscenza il primato assoluto
del dono di Cristo, ma anche permetterà al suo Signore di entrare nella sua
vita, vale a dire, “lasciarsi possedere dall’amore di
Dio”. [89]
In Cristo eucaristia Dio non è posseduto
come un’idea astratta, neppure come programma di vita, ma come “Qualcuno con cui
coltivo una relazione personale forte e di amicizia, filiale, adulta e
responsabile, una relazione di alleanza e impegno incondizionato nella missione
di salvare l’umanità”. [90]
Ed è così che avviene “in pienezza
l’intimità con Cristo, la immedesimazione con Lui, la totale
conformazione a Lui a cui i consacrati sono chiamati per
vocazione”: [91]
“la verità dell’amore di Dio in Cristo
ci raggiunge, ci affascina e ci rapisce, facendoci uscire da noi stessi e
attraendoci così verso la nostra vera vocazione:
l’amore”. [92]
Raggiunto
dall’amore, amato personalmente da Lui, il salesiano diventa capace di amare e
di consegnare se stesso, prima a Dio, poi con Dio agli altri. E in questa
consegna di sé si immedesima con Cristo, perché comunicando con il suo Corpo e
il suo Sangue, si appropria quella forma eucaristica di esistenza che ha
caratterizzato la vita e la morte di Gesù. Celebrare, dunque, l’Eucaristia
quotidianamente, “anche quando non è possibile che vi assistano i
fedeli”, [93]
oltre al suo valore oggettivamente
infinito, ha una singolare efficacia spirituale; proprio perciò, il CG25 ci
spingeva a sviluppare la dimensione comunitaria della nostra vita spirituale
“celebrando l’Eucaristia quotidiana con gioia, creatività ed
entusiasmo”. [94]
La celebrazione dell’Eucaristia “è
formativa nel senso più profondo del termine, in quanto promuove la
conformazione a Cristo”. [95]
Come ha osato dire sant’Agostino: “non
soltanto siamo diventati cristiani, ma siamo diventati Cristo stesso”. Poiché,
nel pane e nel vino eucaristico “Cristo Signore ha voluto affidarci il suo corpo
e il suo sangue, che ha sparso per noi per la remissione dei peccati. Se voi li
avete ricevuti bene, voi stessi siete quel che avete
ricevuto”. [96]
Ma proprio
perché nell’Eucaristia celebrata “in obbedienza al comando di Cristo”, Dio ci
consegna suo Figlio, “la liturgia eucaristica è essenzialmente actio
Dei”, e “il suo fondamento non è a disposizione del nostro arbitrio e non
può subire il ricatto delle mode del momento”. [97]
Solo il docile rispetto della struttura
propria della celebrazione renderà effettivo il nostro riconoscimento del dono
ineffabile e autentico l’impegno di accoglierlo con gratitudine. Non è pensabile
che chi vuole identificarsi con il Cristo che gli si dona totalmente, celebri
l’Eucaristia senza badare alla sua configurazione rituale. Non c’è dubbio:
“l’ars celebrandi è la migliore condizione per l’actuosa
participatio”. [98]
3.2.2 Dalla
conformazione all’adorazione
La sfida per
vivere “l’adesione ‘conformativa’ a Cristo dell’intera
esistenza” [99]
si colloca, precisamente, nel come fare
affinché il rito che celebriamo ogni giorno “come una festa” (Cost. 88)
non venga ridotto a mera mímesis di quanto avvenne nel Cenacolo,
ripetendo gli stessi gesti esteriori di Gesù, ma sia una vera anámnesis,
che fa memoria mentre attualizza e fa presente il fatto rimembrato. Questo è
possibile nella misura in cui la celebrazione conduce alla contemplazione
del mistero che si attualizza. Infatti, “l’adorazione eucaristica non è che
l’ovvio sviluppo della celebrazione eucaristica, la quale è in se stessa il più
grande atto d’adorazione della Chiesa. Ricevere l’Eucaristia significa porsi in
atteggiamento di adorazione verso Colui che
riceviamo”. [100]
La
contemplazione porta necessariamente allo stupore per il dono che Dio ci ha
fatto in Cristo, alla meraviglia di chi si sente amato in tal modo e in tal
misura che non può spiegarsi né sa debitamente ringraziare. “A stento –
affermava stupito Paolo – si trova chi sia disposto a morire per un giusto... ma
Dio dimostra il suo amore verso di noi, perché, mentre eravamo ancora peccatori,
Cristo è morto per noi” (Rm 5, 7-8). Chi si vede amato in modo così
divino non riesce che a lasciarsi amare senza limiti e riuscirà a donarsi fino
all’estremo. Un amore così grande non si merita, né si capisce; lo si ammira e
lo si adora in silenzio riconoscente.
Adorare Dio
“non è vedere il mondo che ci circonda come la materia grezza con cui noi
possiamo fare qualcosa”, ma “scoprire in esso la ‘calligrafia del Creatore’, la
ragione creatrice e l’amore da cui è nato il mondo e di cui ci parla l’universo
[…]. Prima di ogni attività e di ogni mutamento del mondo deve esserci
l’adorazione. Solo essa ci rende veramente liberi; essa soltanto ci dà i criteri
per il nostro agire. Proprio in un mondo in cui progressivamente vengono meno i
criteri di orientamento ed esiste la minaccia che ognuno faccia di se stesso il
proprio criterio, è fondamentale sottolineare l’adorazione”. Ma per il cristiano
adorare Dio è, soprattutto, adorare il suo Signore, “presente nell’Eucaristia
con carne e sangue, con corpo e anima, con divinità e umanità”. Nell’Eucaristia
Cristo non è solo pane per essere mangiato, ma amore per essere contemplato;
anzi, senza l’amore donato il segno eucaristico non avrebbe ragione né sostegno.
“Di fatto, non è che nell’Eucaristia riceviamo semplicemente una qualche cosa.
Essa è l’incontro e l’unificazione di persone; la persona, però, che ci viene
incontro e desidera unirsi a noi è il Figlio di Dio. Una tale unificazione può
soltanto realizzarsi secondo le modalità dell’adorazione. Ricevere l’Eucaristia
significa adorare Colui che riceviamo. Proprio così e soltanto così diventiamo
una cosa sola con
Lui.” [101]
“Nessuno – ha scritto sant’Agostino –
mangia questa carne senza prima adorarla; peccheremmo se non la
adoriamo”. [102]
Quanto a noi,
“chiamati dalla nostra stessa consacrazione ad una contemplazione più prolungata
[…] Gesù nel Tabernacolo ci aspetta accanto a sé, per riversare nei nostri cuori
quell’intima esperienza della sua amicizia che sola può dare senso e pienezza
alla nostra vita e alla
missione”. [103]
Come vorrei, dunque, cari confratelli,
che tra noi si rafforzi, e dove necessario si ricuperi, quella devozione
eucaristica, semplice ma efficace, tanto salesiana, che ha nella visita e
adorazione del Santissimo Sacramento una delle espressioni più preziose e
tradizionali! E non solo perché vorrei che ci lasciassimo plasmare dalla
presenza reale del Signore adorato, ma perché risponde ad un tratto
caratteristico del nostro vissuto carismatico.
Come ben
sappiamo tutti, frequentare il Santissimo Sacramento erano una delle pratiche di
pietà che la “pedagogia eucaristica”
[104]
di Don Bosco privilegiava
nell’educazione dei suoi giovani e nella formazione spirituale dei salesiani. Se
su Domenico Savio scrisse che “era per lui una vera delizia il poter passare
qualche ora dinanzi a Gesù sacramentato”, [105]
ai confratelli, durante un corso di
Esercizi Spirituali, a Trofarello nel 1868, raccomandava la visita al Santissimo
Sacramento tra le pratiche giornaliere: “si vada ai piedi del Tabernacolo
soltanto a dire un Pater, Ave e Gloria quando non si potesse di
più. Basta questo per renderci forti contro le
tentazioni”. [106]
Resta per “noi, figli di Don Bosco,
motivo di frequenti incontri con Cristo la presenza dell’Eucaristia nelle nostre
case”. È dal Cristo eucaristico visitato con assiduità che noi “attingiamo
dinamismo e costanza nella nostra azione per i giovani” (Cost. 88)? È
così che saremo “in grado di vincere ogni tensione dispersiva nelle nostre
giornate, trovando nel sacrificio eucaristico, vero centro della nostra vita e
della nostra missione, l’energia spirituale e necessaria per affrontare i
diversi compiti pastorali. Le nostre giornate diventeranno così veramente
eucaristiche”. [107]
3.2.3
Dall’adorazione alla missione
Perché, cari
confratelli, se “soltanto nell’adorazione può maturare un’accoglienza profonda e
vera” del Cristo eucaristico, è proprio “in questo atto personale di incontro
col Signore (che) matura poi anche la missione sociale che nell’Eucaristia è
racchiusa”. [108]
Chi adora l’amore di Dio nell’Eucaristia
si sente amato, fa esperienza dell’amore ricevuto, il che genera la forza di
dare la vita nella misura del Cristo adorato e ricevuto sacramentalmente.
“L’agape di Dio viene a noi corporalmente per continuare il suo operare
in noi e attraverso di noi”; [109]
l’amore, prima di essere comandato, è
stato donato; e perché dato, può venire
richiesto.
Come
celebrare degnamente la consegna della carne di Cristo per tanti e immedesimarsi
solo con Lui, se poi si rimane indifferenti gli uni agli altri? Come ricevere da
Dio il suo dono per eccellenza, Cristo eucaristia, senza attingere la capacità
di dare la propria vita per molti? Come adorare il Cristo presente nel
sacramento e non rinnovare l’impegno di dare la vita nel servizio ai più
bisognosi? Una devozione svuotata di dedizione, tradisce lo spirito e la lettera
dell’Eucaristia cristiana.
L’adorazione
conduce al desiderio di rispondere con lo stesso amore, estremo (Gv
13,1), e produce come frutto la conversione della persona; c’è uno stretto
“legame tra forma eucaristica dell’esistenza e trasformazione morale
[…]. Infatti, partecipando al Sacrificio della Croce, il cristiano comunica
con l’amore di donazione di Cristo ed è abilitato e impegnato a vivere questa
stessa carità in tutti i suoi atteggiamenti e comportamenti di
vita”. [110]
Il credente che si lascia donare Cristo,
si converte in suo commensale; e il commensale si trasforma lui stesso, per
identificazione, in pane spezzato per la vita del mondo, rendendo attuale nel
suo corpo quello che manca alla passione del Signore (cf. Col
1,24).
Così,
l’identificazione più perfetta con Cristo avviene quando chi si sente amato da
Lui ama a propria volta gli altri: “una Eucaristia che non si traduca in amore
concretamente praticato è in se stessa
frammentata”. [111]
Non illudiamoci: “dall’amore vicendevole
e, in particolare, dalla sollecitudine di chi è nel bisogno saremo riconosciuti
come veri discepoli di Cristo (cf. Gv 13, 35; Mt 25, 31-46). È
questo il criterio in base al quale sarà comprovata l’autenticità delle nostre
celebrazioni eucaristiche”. [112]
Non sarebbe autentica la partecipazione
all’Eucaristia che non spingesse ad impegnarsi fattivamente nell’edificazione di
un mondo più fraterno e solidale; poiché, proprio nell’Eucaristia “il nostro Dio
ha manifestato la forma estrema dell’amore, rovesciando tutti i criteri di
dominio che reggono troppo spesso i rapporti umani ed affermando in modo
radicale il criterio del servizio”. [113]
“Lo stupore
per il dono che Dio ci ha fatto in Cristo” ci impegna “ad essere testimoni del
suo amore”. E lo diventiamo, “quando, attraverso le nostre azioni, parole e modo
di essere, un Altro appare e si comunica”, Cristo. Alimentarsi di Lui porta
naturalmente a testimoniarlo con la vita; la testimonianza sorta dalla nostra
forma eucaristica di vivere, di farci eucaristia, può arrivare “fino al dono di
se stessi, fino al martirio, (che) è sempre stato considerato nella storia della
Chiesa il culmine del nuovo culto spirituale”. [114]
“In effetti, non possiamo tenere per noi
l’amore che celebriamo nel Sacramento. Esso chiede per sua natura di essere
comunicato a tutti. […] Per questo l’Eucaristia non è solo fonte e culmine della
vita della Chiesa; lo è anche della sua missione: ‘Una Chiesa autenticamente
eucaristica è una Chiesa missionaria’ […]. Non possiamo accostarci alla Mensa
eucaristica senza lasciarci trascinare nel movimento della missione che,
prendendo avvio dal Cuore stesso di Dio, mira a raggiungere tutti gli uomini.
Pertanto, è parte costitutiva della forma eucaristica dell’esistenza cristiana
la tensione missionaria”. [115]
Ci dovremmo
domandare sul serio, cari confratelli, da dove nasce in noi, e come farla
rinascere, la carità apostolica, “quel dinamismo giovanile che si rivelava così
forte nel nostro Fondatore e alle origini della nostra Società” (Cost.
10). Se la nostra missione non sorge dalla sua fonte, “il cuore stesso di
Cristo, apostolo del Padre” (Cost. 11), svelato e adorato
nell’Eucaristia, non avrà efficacia né futuro.
Conclusione
Voglio
concludere affidandovi a Maria, maestra di spiritualità eucaristica. Anche se a
prima vista i vangeli non parlano su questo tema, “Maria ci può guidare verso
questo Santissimo Sacramento, perché ha con esso una relazione profonda”. È
vero, come afferma Giovanni Paolo II, che, “nel racconto dell’Istituzione, la
notte del Giovedì Santo, non si parla di Maria”. In realtà non ce n’era bisogno.
E questo perché, al di là di una sua incerta partecipazione al convito
eucaristico, “il rapporto di Maria con l’Eucaristia si può indirettamente
delineare a partire dal suo atteggiamento interiore. Maria è donna
«eucaristica» con l’intera sua vita”. [116]
Anzi, “in un certo senso, Maria
ha esercitato la sua fede eucaristica prima ancora che
l’Eucaristia fosse istituita”; accolse nella fede il Verbo e lo fece corpo nel
suo grembo “anticipando in sé ciò che in qualche misura si realizza
sacramentalmente in ogni credente che riceve, nel segno del pane e del vino, il
corpo e il sangue del Signore. C'è pertanto un'analogia profonda tra
il fiat pronunciato da Maria alle parole dell’Angelo, e l’amen che
ogni fedele pronuncia quando riceve il corpo del Signore”.
[117]
Il mio augurio più sentito è che Dio ci
dia la capacità di accoglierlo come Maria, farlo carne e sangue della nostra
carne e darlo ai giovani come il loro
Salvatore.
Con
affetto, in Don Bosco
Don Pascual Chávez
V.
[1]
Juan E. Vecchi,
“Questo è il mio corpo, offerto per voi”: ACG 371 (2000), p.
5.
[2]
Sacrosanctum
Concilium. Costituzione
Conciliare sulla Sacra Liturgia. 4 dicembre 1963, 10.
[3]
Paolo VI, Mysterium
fidei. Lettera Enciclica sulla dottrina e il culto della Santissima
Eucaristia. 3 settembre 1965, 1.
[4]
Giovanni Paolo II,
Ecclesia de Eucharistia. Lettera Enciclica sull’Eucaristia nel suo
rapporto con la Chiesa. 17 aprile 2003,
21.
[5]
Giovanni Paolo II,
Ecclesia de Eucharistia. Lettera Enciclica sull’Eucaristia nel suo
rapporto con la Chiesa. 17 aprile 2003,
1.
[6]
Paolo VI, Mysterium
fidei. Lettera Enciclica sulla dottrina e il culto della Santissima
Eucaristia. 3 settembre 1965, 2.
[7]
Giovanni Marchesi,
“L’Eucaristia: ‘Sacramento della Carità’. L’Esortazione Apostolica postsinodale
di Benedetto XVI” : La Civiltà Cattolica 3764 (2007) p. 171.
[8]
Giovanni Paolo II,
Dominicae Cenae. Lettera Apostolica sul mistero e culto dell’ Eucaristia.
24 febbraio 1980, 2.
[9]
Giovanni Paolo II,
Tertio Millennio Adveniente. Lettera sulla preparazione del Giubileo
dell’anno 2000. 10 novembre 1994,
55.
[10]
Giovanni Paolo II,
Ecclesia de Eucharistia. Lettera Enciclica sull’Eucaristia nel suo
rapporto con la Chiesa. 17 aprile 2003,
1.
[11]
Giovanni Paolo II,
Mane nobiscum Domine. Lettera Apostolica per l’anno dell’Eucaristia. 7
ottobre 2004, 2
[12]
Giovanni Paolo II,
Mane nobiscum Domine. Lettera Apostolica per l’anno dell’Eucaristia. 7
ottobre 2004, 4.
[13]
Cf. Giovanni Paolo II,
Mane nobiscum Domine. Lettera Apostolica per l’anno dell’Eucaristia. 7
ottobre 2004, 6-10. Agli insegnamenti proposti da Giovanni Paolo II si
aggiunsero preziosi suggerimenti della Congregazione per il Culto Divino e la
Disciplina dei Sacramenti: Redemptionis Sacramentum (25 marzo 2004): AAS
96 (2004) p. 549-601; Anno dell’Eucaristia: suggerimenti e proposte (15
ottobre 2004): Osservatore Romano, 15 ottobre 2004.
Supplemento.
[14]
Cf. Giovanni Paolo II,
Mane nobiscum Domine. Lettera Apostolica per l’anno dell’Eucaristia. 7
ottobre 2004, 4.
[15]
Benedetto XVI, Omelia
Colonia, Spianata di Marienfeld Domenica, 21 agosto
2005.
[16]
Benedetto XVI,
Sacramentum Caritatis. Esortazione Apostolica postsinodale. 22 febbraio
2007, 5
[17]
Benedetto XVI,
Ibidem.
[18]
Benedetto XVI,
Sacramentum Caritatis. Esortazione Apostolica postsinodale. 22
febbraio 2007, 4.
[19]
Benedetto XVI,
Sacramentum Caritatis. Esortazione Apostolica postsinodale. 22 febbraio
2007, 14-15.
[20]
Giovanni Paolo II,
Ecclesia de Eucharistia. Lettera Enciclica sull’Eucaristia nel suo
rapporto con la Chiesa. 17 aprile 2003,
6.
[21]
Benedetto XVI, Omelia
in occasione dell’insediamento sulla Cattedra Romana (7 maggio 2005): AAS 97
(2005), p. 752.
[22]
Benedetto XVI,
Sacramentum Caritatis. Esortazione Apostolica postsinodale. 22 febbraio
2007, 6.
[23]
Juan E. Vecchi,
“Questo è il mio corpo, offerto per voi”: ACG 371 (2000), p.
4.
[24]
Pascual Chávez, “‘Da
mihi animas, cetera tolle’. Identità carismatica e passione apostolica.
Ripartire da Don Bosco per risvegliare il cuore di ogni salesiano”: ACG
394 (2006), p. 6.
[25]
Pascual Chávez,
Ibidem.
[26]
Benedetto XVI,
Sacramentum Caritatis. Esortazione Apostolica postsinodale. 22 febbraio
2007, 84.
[27]
Juan E. Vecchi,
“Questo è il mio corpo, offerto per voi”: ACG 371 (2000), p.
31.
[28]
Juan E. Vecchi,
“Questo è il mio corpo, offerto per voi”: ACG 371 (2000) p.
37.39.
[29]
Benedetto XVI,
Sacramentum Caritatis. Esortazione Apostolica postsinodale. 22 febbraio
2007, 81.
[30]
Giovanni Paolo II,
“Messaggio per l’inizio del Capitolo Generale XXV”. CG25, 144: ACG 378
(2002) p. 117.
[31]
Benedetto XVI,
Sacramentum Caritatis. Esortazione Apostolica postsinodale. 22 febbraio
2007, 83.
[32]
Giovanni Paolo II,
Vita Consecrata. Esortazione Apostolica postsinodale. 25 marzo 1996,
22.
[33]
Concilio Ecumenico
Vaticano II, Lumen Gentium. Costituzione dogmatica sulla Chiesa. 21
novembre 1964, 11.
[34]
Giovanni Paolo II,
Vita Consecrata. Esortazione Apostolica postsinodale. 25 marzo 1996,
95.
[35]
Benedetto XVI,
Sacramentum Caritatis. Esortazione Apostolica postsinodale. 22 febbraio
2007, 81.
[36]
Cf. Juan E. Vecchi,
“Questo è il mio corpo, offerto per voi”: ACG 371 (2000) p. 6-14. E il
Capitolo Generale 25 lamentava “l’indebolimento della fede, che si manifesta
nell’affievolimento della vita di preghiera, della fedeltà alla celebrazione
eucaristica quotidiana…” (GG25, 54: ACG 378 (2002) p.
57).
[37]
Cf. Luc van Looy, “La
celebrazione eucaristica della nostra comunità. Per una verifica della qualità”:
ACG 371 (2000) 53.
[38]
Giovanni Paolo II,
Ecclesia de Eucharistia. Lettera Enciclica sull’Eucaristia nel suo
rapporto con la Chiesa. 17 aprile 2003,
10.
[39]
Pietro Stella, Don
Bosco nella Storia della Religiosità Cattolica. Vol II: Mentalità religiosa
e Spiritualità. Roma: LAS 19812, p. 105.
107.
[40]
Pietro Braido,
L’esperienza pedagogica di Don Bosco. Roma: LAS 1988, p.
125.
[41]
Pietro Braido (ed.),
Don Bosco educatore. Scritti e testimonianze. Roma: LAS 19973,
p. 262.
[42]
Pietro Braido,
Prevenire non reprimere. Il sistema educativo di don Bosco. Roma: LAS
1999, p. 259.
[43]
Benedetto XVI,
Sacramentum Caritatis. Esortazione Apostolica postsinodale. 22 febbraio
2007, 41.
[44]
Giovanni Paolo II,
Ecclesia de Eucharistia. Lettera Enciclica sull’Eucaristia nel suo
rapporto con la Chiesa. 17 aprile 2003,
61.
[45]
Benedetto XVI,
Sacramentum Caritatis. Esortazione Apostolica postsinodale. 22 febbraio
2007, 14.
[46]
“Il contributo
essenziale che la Chiesa si aspetta dalla vita consacrata è molto più in ordine
all’essere che al fare” (Benedetto XVI, Sacramentum Caritatis.
Esortazione Apostolica postsinodale. 22 febbraio 2007,
81).
[47]
Per queste riflessioni
mi sono ispirato in Juan J. Bartolomé, Cuarto evangelio. Cartas de Juan.
Introducción y comentario. Madrid: CCS 2002, p.
226-227.
[48]
L’incomprensione, sia
della gente (Gv 6,41-45) sia dei discepoli (Gv 6,60) diventa
protesta e scandalo. Ed è comprensibile: Gesù ripete per ben tre volte che lo si
deve masticare (Gv 6,54.56.58) e bere il suo sangue
(Gv 6,53.54.55), affermazione, quest’ultima, particolarmente
abominevole per i giudei; il sangue è vita di cui Dio solo può disporre (cf. Gn
9,4; Lv 3,17; 17,10-16; Dt 12,16.23-25).
[49]
È la prima volta che
l’evangelista nomina i Dodici (Gv 6,67.70.71; 20,24), di cui non ha
raccontato l’elezione né ricorderà i nomi (cf. Mc 3,13-19; Mt
10,1-4; Lc 6,12-16).
[50]
Cf. Juan J. Bartolomé,
Jesús de Nazaret, formador de discípulos. Motivo, meta y metodología de
su pedagogía en el evangelio de Marcos. Madrid: CCS 2007, p.
219-263.
[51]
Cf. Juan J. Bartolomé,
Cuarto evangelio. Cartas de Juan. Introducción y comentario. Madrid: CCS,
2002, 283-289.
[52]
Xavier Léon-Dufour,
Condividere il pane eucaristico secondo il Nuovo Testamento. Torino,
Elledici 2005, p. 234.
[53]
Benedetto XVI,
Messaggio dell’XI Assemblea Generale ordinaria del Sinodo dei Vescovi.
“Eucaristia: Pane vivo per la pace del mondo”. 22 ottobre 2005,
18.
[54]
Lavare i piedi era
compito di schiavi (1 Sam 25,41), tanto spregevole che non lo si poteva
esigere da uno schiavo ebreo (Lv 25,39); poteva, questo sì, essere segno
di pietà per il padre o devozione per il maestro (Bill I 707; II 557). Lavare i
piedi dei commensali risultava un gesto tanto inusuale come il mettersi Gesù a
servire durante la cena (Gv
13,2.5).
[55]
La formula ‘amare
fino alla fine’, può intendersi in senso temporale, fino
all’ultimo momento della vita, oppure qualitativamente, fino all’estremo,
fino alla perfezione. In ogni caso, la fine è il culmine della sua vita e del
suo amore; amare è, in retrospettiva, sinonimo dell’agire storico di Gesù e la
spiegazione della sua morte (Gv 13,34; 15,9; 17 23;
19,28.30).
[56]
Xavier Léon-Dufour,
Lectura del evangelio de Juan. Vol. III: Juan 13-17. Salamanca: Sígueme,
1995, 50.
[57]
Cf. Rudolf Bultmann,
Das Evangelium nach Johannes. Gottinga, 196810,
365.
[58]
Cf. Giovanni Paolo II,
Novo Millennio Ineunte. Lettera Apostolica al termine del Grande Giubileo
dell’Anno Duemila. 6 gennaio 2001, 29.
[59]
Giovanni Paolo II,
Omelia nella V Giornata della Vita Religiosa. 2 Febbraio 2001,
4.
[60]
CIVCSVA, Ripartire
da Cristo. Un rinnovato impegno della Vita Consacrata nel Terzo Millennio.
Istruzione. 19 maggio 2002, 21.22.
[61]
Giovanni Paolo II,
Vita Consecrata. Esortazione Apostolica postsinodale. 25 marzo 1996,
95
[62]
Benedetto XVI, Deus
Caritas est. Lettera Enciclica sull’amore cristiano. 25 dicembre 2005,
13.
[63]
Benedetto XVI,
Sacramentum Caritatis. Esortazione Apostolica postsinodale. 22 febbraio
2007, 82
[64]
Benedetto XVI,
Ibidem.
[65]
Card. José Saraiva
Martins, “Eucaristia: ‘Sacramentum sanctitatis”: L’Osservatore Romano. 9
maggio 2007, 5.
[66]
Benedetto XVI,
Sacramentum Caritatis. Esortazione Apostolica postsinodale. 22 febbraio
2007, 81
[67]
Benedetto XVI,
Sacramentum Caritatis. Esortazione Apostolica postsinodale. 22 febbraio
2007, 94.
[68]
Cf. Giovanni Paolo II,
“Discorso ai partecipanti al Capitolo Generale”. CG25, 170: ACG
378 (2002) p. 138.
[69]
Giovanni Paolo II,
Vita Consecrata. Esortazione Apostolica post-sinodale. 25 marzo 1996,
95.
[70]
Giovanni Paolo II,
Ecclesia de Eucharistia. Lettera Enciclica sull’Eucaristia nel suo
rapporto con la Chiesa. 17 aprile 2003,
11.
[71]
Giovanni Paolo II,
Vita Consecrata. Esortazione Apostolica post-sinodale. 25 marzo 1996,
95.
[72]
Giovanni Paolo II,
Ecclesia de Eucharistia. Lettera Enciclica sull’Eucaristia nel suo
rapporto con la Chiesa. 17 aprile 2003, 12. Il Papa cita un testo del
Catechismo della Chiesa Cattolica,
1382.
[73]
Giovanni Paolo II,
Vita Consecrata. Esortazione Apostolica post-sinodale. 25 marzo 1996,
22.
[74]
Cf. Mircea Eliade,
Lo Sagrado y lo Profano, Madrid, Paidós 1998,
53-85.
[75]
Cf. Juan J. Bartolomé,
“La obediencia de Cristo, filiación probada”: in Vida Religiosa 94 (2003)
p. 38-45, ha mostrato come l’obbedienza al Padre sia una categoria evangelica
adatta per spiegare tutto il mistero personale di Cristo e la realizzazione del
suo operato.
[76]
Giovanni Paolo II,
Vita Consecrata. Esortazione Apostolica post-sinodale. 25 marzo 1996,
22.
[77]
Un programma che
avrebbe le sue radici nella storia teologica del protestantesimo, secondo P.
Stuhlmacher, Jesús de Nazaret – Cristo de la Fe. Salamanca, Sigueme
1996, 90
[78]
Cf. Joachim Jeremias,
Abba. El Mensaje Central del Nuevo Testamento, Salamanca, Sígueme
19934, 270.
[79]
Benedetto XVI, Deus
Caritas est. Lettera Enciclica sull’amore cristiano. 25 dicembre 2005,
13.
[80]
Cf. Benedetto XVI,
Deus Caritas est. Lettera Enciclica sull’amore cristiano. 25 dicembre
2005, 6.
[81]
Benedetto XVI,
Sacramentum Caritatis. Esortazione Apostolica postsinodale. 22 febbraio
2007, 81.
[82]
Benedetto XVI,
Sacramentum Caritatis. Esortazione Apostolica postsinodale. 22 febbraio
2007, 84.
[83]
Su questo aspetto, la
prima enciclica del Papa Benedetto XVI è particolarmente ricca. Ricordo
solamente due testi in relazione con l’eros e
l’agape: “Quanto più ambedue, pur in dimensioni diverse, trovano
la giusta unità nell’unica realtà dell’amore, tanto più si realizza la vera
natura dell’amore in genere (...). Dove però le due dimensioni si distaccano
completamente l’una dall’altra, si profila una caricatura o in ogni caso una
forma riduttiva dell’amore” (Benedetto XVI, Deus Caritas est. Lettera
Enciclica sull’amore cristiano. 25 dicembre 2005,
7-8)
[84]
Joachim Jeremias,
Abba. El Mensaje Central del Nuevo Testamento, Salamanca, Sígueme
19934, 259-260.
[85]
Cf. Juan J. Bartolomé,
La Alegría del Padre. Estudio exegético de Lc 15. Estella: Verbo Divino,
2000.
[86]
CIVCSVA, Ripartire
da Cristo. Un rinnovato impegno della Vita Consacrata nel Terzo Millennio.
Istruzione (19 maggio 2002) 26.
[87]
Giovanni Paolo II,
Vita Consecrata. Esortazione Apostolica post-sinodale. 25 marzo 1996,
95.
[88]
Benedetto XVI,
Sacramentum Caritatis. Esortazione Apostolica postsinodale. 22 febbraio
2007, 8.
[89]
Benedetto XVI,
Sacramentum Caritatis. Esortazione Apostolica postsinodale. 22 febbraio
2007, 80.
[90]
Card. Cláudio Hummes,
“Spiritualità presbiterale nella ‘Sacramentum caritatis’”: in L’Osservatore
Romano. 16 maggio 2007, 8.
[91]
CIVCSVA, Ripartire
da Cristo. Un rinnovato impegno della Vita Consacrata nel Terzo Millennio.
Istruzione. 19 maggio 2002, 26.
[92]
Benedetto XVI,
Sacramentum Caritatis. Esortazione Apostolica postsinodale. 22 febbraio
2007, 35.
[93]
Giovanni Paolo II,
Ecclesia de Eucharistia. Lettera Enciclica sull’Eucaristia nel suo
rapporto con la Chiesa. 17 aprile 2003,
31.
[94]
CG25, 31: ACG
378 (2002) p. 38.
[95]
Benedetto XVI,
Sacramentum Caritatis. Esortazione Apostolica postsinodale. 22 febbraio
2007, 80.
[96]
Sant’Agostino, In
Iohannis Evangelium Tractatus 21, 8: PL 35, 1568;
Sermo 227,1: PL 38, 1099. E nelle Catechesi di Gerusalemme si
legge: “Ricevendo il corpo e il sangue di Cristo, tu diventi concorporeo e
consanguineo di Cristo” (22 1,3: PG 33
1098).
[97]
Benedetto XVI,
Sacramentum Caritatis. Esortazione Apostolica postsinodale. 22 febbraio
2007, 37.
[98]
Benedetto XVI,
Sacramentum Caritatis. Esortazione Apostolica postsinodale. 22 febbraio
2007, 38.
[99]
Giovanni Paolo II,
Vita Consecrata. Esortazione Apostolica post-sinodale. 25 marzo 1996,
16.
[100]
Benedetto XVI,
Sacramentum Caritatis. Esortazione Apostolica postsinodale. 22 febbraio
2007, 66.
[101]
Benedetto XVI,
Discorso alla Curia Romana. 22 Dicembre 2005: AAS 98 (2006), p.
44-45.
[102]
Sant’ Agostino,
Enarrationes in Psalmos 98,9: CCL XXXIX,
1385.
[103]
Cf. Giovanni Paolo II,
Mane nobiscum Domine. Lettera Apostolica per l’anno dell’Eucaristia. 7
ottobre 2004, 30.
[104]
Pietro Braido,
Prevenire non reprimere. Il sistema educativo di don Bosco. Roma, LAS
1999, p. 261. A lui, infatti, si deve che “si stabilisca all’Oratorio l’usanza
della visita al SS. Sacramento, allorché studenti e artigiani sospendevano
lavoro e studio per un po’ di ricreazione nel cortile” (Pietro Stella, Don
Bosco nella Storia della Religiosità Cattolica. Vol. II: Mentalità religiosa
e Spiritualità. Roma, LAS 1981, p. 309).
[105]
Giovanni Bosco,
Vita del giovanetto Savio Domenico, allievo dell’Oratorio di San Francesco di
Sales. Torino 1959, 71: OE XI, p. 221. Comenta Francis
Desramaut: “El lector de la Vida de Domingo Savio conoce las largas
contemplaciones silenciosas de este joven ante el sagrario e intuye la relación
existente entre ellas y su amor heroico a Dios” (Don Bosco y la vida
espiritual. Madrid, CCS 1994, p. 126).
[106]
Giovanni Battista
Lemoyne, Memorie Biografiche del venerabile Don Giovanni Bosco. Vol. IX.
Torino 1917, p. 355-356.
[107]
Giovanni Paolo II,
Ecclesia de Eucharistia. Lettera Enciclica sull’Eucaristia nel suo
rapporto con la Chiesa. 17 aprile 2003, 31.
[108]
Benedetto XVI,
Discorso alla Curia Romana. 22 dicembre 2005. AAS 98 (2006) p.
45.
[109]
Paul Josef Cordes,
“L’Eucaristia e la carità”: L’Osservatore Romano. 18-19 marzo 2007, p.
7.
[110]
Benedetto XVI,
Sacramentum Caritatis. Esortazione Apostolica postsinodale. 22 febbraio
2007, 82.
[111]
Benedetto XVI, Deus
Caritas est. Lettera Enciclica. 25 dicembre 2005, 14.
[112]
Giovanni Paolo II,
Mane nobiscum Domine. Lettera Apostolica per l’anno dell’Eucaristia. 7
ottobre 2004, 28.
[113]
Giovanni Paolo II,
Ibidem.
[114]
Cf. Benedetto XVI,
Sacramentum Caritatis. Esortazione Apostolica postsinodale. 22 febbraio
2007, 85.
[115]
Benedetto XVI,
Sacramentum Caritatis. Esortazione Apostolica postsinodale. 22 febbraio
2007, 84.
[116]
Giovanni Paolo II,
Ecclesia de Eucharistia. Lettera Enciclica sull’Eucaristia nel suo
rapporto con la Chiesa. 17 aprile 2003, 53.
[117]
Giovanni Paolo II,
Ecclesia de Eucharistia. Lettera Enciclica sull’Eucaristia nel suo
rapporto con la Chiesa. 17 aprile 2003,
55.